Il futuro dell’economia italiana basata sul capitale di debito

Iniziamo facendo una premessa, forse molti non hanno mai sentito parlare di capitale di rischio mentre se parliamo di capitale di debito in genere quasi tutti sanno di cosa si tratta.
Già da questa affermazione possiamo capire perché il nostro paese negli ultimi decenni non è riuscito a tenere il passo con i paesi occidentali (anch’essi molto esposti al capitale di debito ma anche molto propensi al capitale di rischio).
Iniziamo cercando di capire la differenza tra i due tipi di capitale

CAPITALE DI DEBITO
il capitale di debito come risaputo è una somma di denaro che viene prestata dall’investitore (che può essere sia una persona fisica o giuridica come un fondo, una banca o altro) a un’azienda o agli stati (tralasciamo le famiglie), i quali sono tenuti a restituire il capitale iniziale ad un tasso di interesse fisso o variabile di qualche punto percentuale annuo.
In questo caso non c’è nessun investimento diretto in azienda da parte dell’investitore il quale, se l’azienda o lo stato non fallisce, si vedrà restituito il capitale inizialmente prestato più la quota di interessi. ovviamente se ci fosse un fallimento l’investitore potrebbe vedersi restituito solo parte (o non ricevere nulla) del capitale come nel caso della grecia, dell’argentina o dei bond cirio e parmalat.

CAPITALE DI RISCHIO
Il capitale di rischio è completamente differente dal capitale di debito, con il capitale di rischio un investitore (che anche in questo caso può essere persona fisica o giuridica come fondi o altro) compra una quota della società acquistato azioni e diventando socio.
Questo tipo di investimento è completamente differente dal capitale di debito e consente al socio di partecipare direttamente agli utili (e alle perdite) della società e a differenza del capitale di debito consente all’investitore di poter ottenere ritorni anche di 3 cifre percentuali in pochi anni (ma anche di poter perdere totalmente l’investimento iniziale, cosa che tra l’altro può avvenire anche con il capitale di debito in caso di fallimento).

DIFFERENZA SISTEMICA DEI DUE TIPI DI INVESTIMENTO
Per un’azienda il capitale di rischio è sicuramente il metodo migliore per ottenere capitali: il capitale di rischio non ha una scadenza, viene impiegato direttamente nella società per investimenti (e quindi anche per possibili assunzioni se necessarie a sviluppare il business), non deve essere restituito all’investitore come il capitale di debito perché chi investe diviene socio (e in qualità di socio più influire sulle strategie aziendali) e consente anche ai piccoli investitori di poter avere ritorni importanti dall’investimento dando a chiunque la possibilità di costruire una rendita personale diversificata.
Il capitale di debito è più problematico per un’azienda perché se inizialmente porta liquidità da poter utilizzare, questa liquidità successivamente e ad una data certa deve essere restituita con interessi quindi possiamo definire il capitale di debito come “una boccata d’ossigeno iniziale per l’azienda che nel lungo periodo si trasforma in zavorra”.
per questo tutti i sistemi basati su capitale di debito hanno avuto anni di gloria quando gli investitori erano disposti a prestare capitali, situazione che si è ribaltata quando i capitali hanno iniziato a scarseggiare e il debito da restituire aumentava.

Da premettere che tutto il sistema capitalistico è basato sul debito però avere un sistema misto debito/capitale di rischio e un sistema totalmente sbilanciato sul debito è molto differente e nel primo caso si ha un sistema molto più sano e stabile.

ECONOMIA ITALIANA
Storicamente il popolo italiano non è mai stato molto avvezzo al rischio e all’investimento diretto in azienda preferendo la stabilità, dirottando per decenni i propri risparmi verso il capitale di debito. Questo ha si consentito di salvaguardare il risparmio nei periodi di crisi ma è anche la causa della crescita zero del nostro paese perché senza investimenti diretti le aziende non crescono e per finanziarsi si indebitano.
Questa scarsa propensione all’investimento da parte degli italiani ha creato un mostro statale che per decenni (e tutt’ora) gestisce gran parte delle attività economiche del paese o direttamente o tramite aziende controllate che vengono finanziate tramite il debito pubblico (emissione di titoli di stato e cioè capitale di debito, vedi articolo) o tramite la tassazione che è una tra le più elevate del globo (se nessuno investe deve intervenire lo stato).
Un sistema siffatto ha seri problemi nel mondo globalizzato creando nanismo industriale (basti pensare che l’azienda italiana più grande è l’eni che appunto è in buona parte pubblica e che a fatica rientra tra le prime 100 aziende mondiali dove troviamo molte società statunitensi, inglesi, cinesi, giapponesi, tedesche, francesi, ecc).
Un sistema fatto di aziende molto piccole oltre a non creare posti di lavoro (un’azienda piccola ovviamente non può creare occupazione come una multinazionale) fatica anche a creare benessere perché la forte gestione statale non genera utili per gli azionisti per il semplice motivo che gli azionisti non esistono in un sistema centralizzato.

Per quanto riguarda le imprese italiane private invece, sono quasi totalmente a conduzione familiare e questo non consente loro di svilupparsi in modo appropriato nell’economia globale (salvo pochi casi), perché un singolo investitore non ha il potere economico di più azionisti che si uniscono e quindi dispone di un capitale minore. Nonostante questo in italia per mantenere il 100% di controllo dell’azienda si sceglie di non vendere quote di partecipazione e di non quotarsi in borsa in modo da rimanere l’uomo solo al comando.
Questa mentalità però crea come abbiamo detto aziende molto piccole che usano quasi esclusivamente capitale di debito per finanziarsi, capitale che nei momenti di crisi si fatica a restituire causando anche numerosi fallimenti.
Molte società italiane sono fallite per questa mentalità, piuttosto di creare un azionariato diffuso ed attirare capitale di rischio, si è disposti a tenersi tutta l’azienda per se anche a costo di fallire.

Oltre a questo c’è anche la questione diversificazione, in genere l’imprenditore solo al comando investe in una sola azienda e da qui si evince il maggior rischio per un investitore che è quello della concentrazione, se un investitore ha la totalità degli investimenti in una sola società, se questa dovesse fallire perderebbe tutto il suo capitale mentre l’investitore oculato punterebbe alla diversificazione. In sintesi la strategia da preferire è quella di avere il 10% in 10 aziende, piuttosto di concentrare il 100% in una singola attività e questa è la grande differenza fra l’imprenditore italiano ed estero.

Se gli imprenditori italiani sono restii ad aprirsi al capitale di rischio con altri soci è altrettanto vero che la maggior parte degli italiani non è assolutamente propensa a investire nelle aziende per paura di perdere il capitale e questo crea un sistema bloccato dove il reddito della classe media rimane solo ed esclusivamente il salario da lavoro dipendente mentre per l’imprenditore è l’utile della singola azienda di famiglia.
Il sistema migliore è quello dei paesi anglosassoni ad azionariato diffuso dove le famiglie al potere sono l’eccezione mentre la norma sono multinazionali con migliaia di azionisti che molto spesso sono anche gli stessi lavoratori che partecipano agli utili aziendali creandosi una rendita aggiuntiva molto spesso anche superiore al reddito stesso da lavoro dipendente perché la crescita aziendale si somma nei vari anni (quindi la possiamo definire esponenziale) mentre quella legata al reddito è stazionaria.

Purtroppo l’italia viene da un retaggio culturale del passato dove l’investimento in capitale di rischio viene associato ad una scommessa molto spesso perdente, cosa assolutamente non veritiera perché se si guardano le economie avanzate gli investimenti in capitale di rischio (anche con tutte le crisi che hanno subito) hanno generato ritorni medi intorno al 7/8% annui contro il 2/3% del capitale di debito tanto caro all’italia e se consideriamo che la crescita si somma a quella dell’anno precedente capiamo subito che in 5 anni nel primo caso abbiamo un ritorno dell’investimento intorno al 50% rispetto al capitale di debito che ci consente un ritorno intorno al 20% (da notare che il calcolo è stato effettuato in base ai valori medi di crescita dei mercati di debito e capitale di rischio senza considerare i cicli di mercato). Questo esempio evidenzia immediatamente la differenza del tasso di crescita dei due sistemi.

A differenza di quanto si sostiene in questo periodo l’italia è un paese ricco (ovviamente questo è un dato in valore assoluto e non riguarda la distribuzione di ricchezza), la cui ricchezza finanziaria ha superato abbondantemente i 3000 miliardi di euro ma qui è doverosa una precisazione perché l’italia ha anche un debito pubblico di oltre 2000 miliardi di euro attualmente in buona parte in mano a investitori italiani tramite acquisto diretto di titoli (btp, bot, ecc) o indiretto tramite fondi pensione, fondi obbligazionari e fondi assicurativi; quindi il debito dello stato italiano rappresenta buona parte della ricchezza privata degli italiani, da qui si evince che chi vuole annullare il debito pubblico sostiene di voler annullare buona parte del risparmio degli italiani (tralasciando gli investimenti esteri nel nostro debito pubblico che dopo la crisi del 2011 si sono di molto ridimensionati.
Questo significa che 2000 miliardi di ricchezza italiana sono bloccati su investimenti in titoli di stato (cioè del debito pubblico al netto delle varie compravendite giornaliere), ricchezza che non può essere disinvestita causa fallimento dell’italia (vedi articolo), questa è la conseguenza dello sviluppo tramite capitale di debito.
Quindi la ricchezza reale (tralasciando appunto la parte utilizzata per finanziare il debito pubblico) la possiamo indicare in circa 1000 miliardi che spesso o è ferma sui conti correnti o è investita in capitale di debito di aziende private e non viene utilizzata in capitale di rischio se non in minima parte.

In un sistema come quello statunitense invece, la classe media è molto attiva sul fronte del capitale di rischio, la popolazione investe direttamente nelle aziende che grazie a questo volano si sviluppano creando posti di lavoro e utili per gli investitori, in italia invece i risparmi (soprattutto nei decenni passati) venivano utilizzati in buona parte per comprare titoli di stato incrementando il debito dello stato il quale gestiva direttamente la parte produttiva del paese.
L’italia è arrivata ad un bivio e deve decidere che paese vuole essere, una possibilità è quella di continuare nel nanismo industriale del piccolo imprenditore solo al comando e delle grandi aziende pubbliche finanziate a debito (soluzione totalmente anacronistica e che porterebbe il paese ad un inesorabile declino), oppure cambiare e creare aziende ad azionariato diffuso dove il cittadino investe direttamente nelle società creando sviluppo, aumentando posti di lavoro e ritorni in utile dall’investimento.


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